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La scena l’abbiamo vista tutti almeno una volta, al cinema o in televisione: l’interno metallico di una navicella spaziale e una nuvola di oggetti – cacciaviti, piccoli contenitori, attrezzi da lavoro – che fluttua in assenza di gravità. Un’immagine affascinante e suggestiva, che nella vita quotidiana nello spazio, però, può tradursi anche in difficoltà e problemi. Perché quegli oggetti “volanti” sono spesso strumenti di lavoro fondamentali e gli astronauti devono poter sapere con certezza dove si trovano in ogni momento.

Come fare, quindi, per tenerli sotto controllo? La risposta arriva da un progetto dell’Università di Bologna che si basa sulla UWB (Ultra-Wide Bandwidth), tecnologia radio innovativa a banda ultra-larga sviluppata e brevettata dall’Alma Mater. Finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea, il progetto si chiama LOST – Localisation of Objects in Space through RF Tags e punta a realizzare un sistema di localizzazione di oggetti con precisione centimetrica attraverso etichette a radiofrequenza da utilizzare all’interno della Stazione Spaziale Internazionale.

“La tecnologia radio UWB – spiega il prof. Davide Dardari, coordinatore del progetto e docente al Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Elettrica e dell’Informazione dell’Alma Mater, presso il Campus di Cesena – pur essendo molto recente, in sé non è nuova nell’impiego in sistemi di localizzazione ad elevata precisione per ambienti chiusi, dove il GPS non funziona. Il nostro gruppo di ricerca lavora da almeno dieci anni sull’applicazione di questo strumento per il posizionamento e la comunicazione wireless, anche in collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology”.

Grazie all’emissione di successioni di impulsi rapidissimi, di durata inferiore a un miliardesimo di secondo, la tecnologia UWB permette di misurare con estrema precisione il tempo che l’impulso impiega per “viaggiare” da un trasmettitore al ricevitore. Così, sapendo che l’onda radio viaggia alla velocità della luce e combinando le misure da più punti di vista, è possibile dedurre la distanza da cui l’impulso è partito e quindi la posizione dell’oggetto. Inoltre, grazie alla trasmissione di impulsi così brevi, il sistema di comunicazione risulta particolarmente resistente agli effetti anomali di propagazione radio che possono essere causati dalle riflessioni del segnale su ostacoli e pareti.

C’è però un problema: ad oggi la tecnologia UWB funziona grazie a tag a radiofrequenza equipaggiati con batterie che vanno ricaricate dopo qualche ora di funzionamento, procedura che si rivelerebbe molto complicata e dispendiosa all’interno della Stazione Spaziale Internazionale. La sfida principale su cui è al lavoro il team dell’Alma Mater è allora quella di riuscire a coniugare l’utilizzo della tecnologia UWB con soluzioni elettroniche a bassissimo consumo.

“L’idea di fondo – continua il prof. Dardari – consiste nel rimuovere dai tag il generatore di segnali UWB, per sostituirlo con un semplicissimo circuito elettronico in grado di modificare nel tempo il modo con cui l’antenna del tag riflette i segnali captati. Si tratta di una tecnica innovativa, chiamata Backscattering UWB, che in pratica trasforma il tag da soggetto attivo che trasmette segnali a soggetto passivo che si limita a riflettere gli impulsi di interrogazione generati dall’infrastruttura UWB. In questo modo l’energia consumata dai tag cala drasticamente e può essere trasferita direttamente via radio grazie a tecniche di ‘energy harvesting’”.

Una soluzione, insomma, che potrebbe rivelarsi fondamentale per semplificare la vita degli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale, e che potrebbe rivelarsi utile anche per nuove soluzioni di localizzazione e controllo degli oggetti nello spazio. Senza contare, ovviamente, le possibili applicazioni “terrestri” per questa nuova tecnologia, ad esempio nella gestione della logistica nei magazzini o per rintracciare i bagagli dei passeggeri negli aeroporti.

Il team dell’Università di Bologna per il progetto LOST – Localisation of Objects in Space through RF Tags è coordinato da Davide Dardari e comprende i docenti Alessandra Costanzo e Aldo Romani e i giovani post-doc Anna Guerra e Nicolò Decarli. Al progetto collabora inoltre l’Università Cattolica di Louvain, in Belgio.