Dopo cinquant’anni si chiude la lunga battaglia legale sull’edificio abusivo, situato sui colli di Bologna, che ospita la discoteca “La Capannina”: il Comune di Bologna ha proceduto a notificare alla proprietà dell’edificio, la società Giulia Srl, l’ordinanza di demolizione del 1979, che riacquista a questo punto efficacia e validità. La proprietà dell’edificio, che si trova in cima a via San Vittore, all’incrocio con via di Barbiano, deve ottemperare all’ordinanza entro 90 giorni. Se ciò non dovesse accadere, al termine dei tre mesi sarà il Comune a eseguire la demolizione rivalendosi per le spese su chi ha compiuto l’abuso. Quella della repressione degli abusi edilizi, che non ha carattere discrezionale ma è rigidamente normata, è un’attività ordinaria dell’Amministrazione: dal 2010 a oggi il settore competente ha emanato 132 ordinanze di demolizione coattiva mentre altre 67 pratiche sono in via di conclusione. Si tratta della funzione di controllo del territorio obbligatoria per legge che, nei casi gravi e non diversamente sanabili, arriva a ordinare la demolizione dei manufatti abusivi.

La lunga battaglia legale: dal CRAL San Vittore alla prima ordinanza di demolizione.
La storia dell’edificio che ospita la Capannina comincia nel 1966 quando viene richiesto un ampliamento del CRAL San Vittore, un locale realizzato sui colli probabilmente nel primo dopoguerra. L’ampliamento in realtà era già stato in parte realizzato, e in parte ancora da portare a termine con la previsione della demolizione dell’edificio allora esistente. La proprietà viene autorizzata ad ampliare la struttura ma con licenza provvisoria: il piano regolatore all’epoca vigente infatti non ammetteva ampliamenti, pertanto i nulla osta erano tutti precari e accompagnati dal cosiddetto “atto di sottomissione”, con il quale la proprietà si impegnava a demolire la costruzione quando il Comune ne avesse fatto richiesta. Nel 1967 la proprietà chiede un altro ampliamento, che viene autorizzato alle medesime condizioni, cioè con una licenza provvisoria. Tra il 1968 e il 1974, in assenza o con licenze negate, vengono eseguiti lavori abusivi: aumenti di superficie, lavori di sbancamento di terreno, ristrutturazioni interne. Tutte le opere abusive sono state verbalizzate, e ogni volta a questi verbali seguiva un’ordinanza di sospensione lavori. Questo fino all’8 febbraio del 1979 quando un provvedimento dell’amministrazione comunale annulla le licenze provvisorie e, di conseguenza, vengono emanate due ordinanze di demolizione. E’ da questo momento che prende il via la lunga battaglia legale conclusa quest’anno: la proprietà infatti impugna il provvedimento con un ricorso al TAR datato 28 aprile 1979. Nel frattempo, visto che l’ordinanza di demolizione non aveva avuto seguito, il Comune emana l’ordine di demolizione coattiva, è il 10 settembre 1979: ed è proprio questo documento, rimasto congelato per 37 anni, a tornare oggi valido.

La richiesta di condono edilizio e il “no” della Soprintendenza.
Mentre il TAR nel 1979 concede la sospensiva richiesta dalla proprietà dell’edificio all’ordinanza di demolizione (il tribunale si esprimerà infine nel 1994 dichiarando la perenzione del ricorso), il cammino dell’edificio di via San Vittore incrocia un’altra tappa che risulterà decisiva nell’allungamento dei tempi: la richiesta da parte della proprietà del condono edilizio per tutta la struttura (che nel frattempo era arrivata a misurare circa 450 metri quadrati), nel 1985. Un condono cosiddetto tombale, con oltre 60.000 richieste che intasano gli uffici dell’amministrazione per anni. Tanto che il condono viene rilasciato dieci anni dopo, nel 1995, e trasmesso alla Soprintendenza. Che però, il 13 luglio dello stesso anno, emana un provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria rilasciata dal Comune: “Le opere, per la loro mole e collocazione – recita l’atto della Soprintendenza – deturpano in modo grave il quadro naturale di singolare bellezza panoramica costituito dall’area tutelata”. La proprietà a quel punto propone un ricorso al TAR contro il decreto di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, ricorso respinto con sentenza del 2009, confermata in appello dal Consiglio di Stato il 23 febbraio di quest’anno, atto che mette la parola fine al lungo iter giudiziario, confermando l’inefficacia della sanatoria del 1995 e aprendo dunque le porte allo “scongelamento” dell’ordinanza di demolizione coattiva del 1979. Per tutto il periodo della vertenza legale, l’esercizio del locale La Capannina non è mai cessato: i profili di illegittimità all’attenzione di TAR e Consiglio di Stato riguardavano infatti la conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica, non gli aspetti connessi alla fruizione dei locali (per esempio igiene, salubrità, agibilità), che seguono per legge un iter autorizzativo parallelo.

Dopo la sentenza del Consiglio di Stato.
Arrivati a questo punto l’amministrazione, vista la sentenza del Consiglio di Stato ovvero l’ultimo grado di giudizio per gli atti amministrativi, non ha scelta: occorre procedere con la demolizione dell’abuso quindi con il ripristino dello stato dei luoghi, a conferma che il fine prioritario dell’attività del Comune è la tutela del territorio, in particolare quello collinare, assoggettato ai dettami del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio proprio in ragione della significativa valenza paesaggistica e naturalistica.