Quali sono i prodotti biobased che detengono le maggiori potenzialità di implementazione industriale e sfruttamento commerciale nei prossimi 5-10 anni? È il tema a cui ha lavorato l’Università di Bologna nell’ambito dello studio “Bioeconomy: Support to Policy for Research and Innovation” (BIO-SPRI). Il progetto, coordinato dalla danese COWI, viene presentato oggi a Bruxelles all’interno di una conferenza conclusiva organizzata dalla Commissione Europea – Direttorato Generale Ricerca e Innovazione (EC DG-RTD).

Il lavoro di consulenza – detto tender – è stato pensato per fornire supporto diretto alle future decisioni che la Commissione Europea sarà chiamata a prendere sul settore dei prodotti biobased, sia in termini di emanazione di nuove politiche comunitarie, sia per l’individuazione di tematiche di ricerca e innovazione particolarmente rilevanti.

Lo studio è unico nel suo genere (l’unico precedente è del 2015, ma riguardava solo i prodotti derivanti dalla piattaforma dello zucchero) e per questo di particolare interesse per i grandi investitori impegnati nel settore.

“Siamo stati chiamati ad un compito arduo, sia in termini di mole di lavoro da svolgere in un arco temporale ristretto che per complessità tecnica”- spiega Paola Fabbri, docente Unibo che ha coordinato le attività svolte dal gruppo dell’Alma Mater. “L’unicità del nostro studio è insita nel fatto di aver mappato ogni genere di innovazione nei prodotti biobased, che derivano da ben sette tipologie diverse di biomassa: la lignina, gli oli vegetali ed i grassi animali, le fibre vegetali, la gomma naturale, i terpeni, i polielettroliti naturali ed i rifiuti urbani”.

Il lavoro dell’Università di Bologna, durato quattordici mesi, ha coinvolto competenze multidiscliplinari, che hanno spaziato dalle biotecnologie industriali (prof. Fabio Fava e prof. Lorenzo Bertin del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali), ai processi chimici (prof. Fabrizio Cavani, Dipartimento di Chimica Industriale “Toso Montanari”), ai prodotti chimici e materiali provenienti da fonte rinnovabile (prof. Paola Fabbri, Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali) ed alla bioeconomia (prof. Davide Viaggi, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari).

“Abbiamo costruito un database che raccoglie informazioni su più di cento prodotti innovativi – continua la professoressa Fabbri – e da questi ne abbiamo selezionati venti che per criteri sul grado di innovazione, attuale livello di implementazione, valore economico ed altro, detengono il maggiore potenziale di sfruttamento commerciale nei prossimi 5-10 anni”.

Un lavoro che ha restituito risultati rilevanti. “Abbiamo individuato nuove soluzioni che possono sostituire tradizionali prodotti chimici attualmente disponibili solo da fonte fossile, come i solventi aromatici o le resine fenoliche, che ora possono arrivare ad esempio dalla valorizzazione della lignina. La stessa lignina può dare eccellenti fibre di carbonio per fabbricare compositi avanzati, al posto delle solite fibre ottenute da precursore polimerico. Insomma, c’è davvero da chiedersi se la lignina stia diventando il nuovo petrolio”.

E c’è spazio anche per le bioplastiche. “Stanno crescendo – conferma Paola Fabbri – e l’attenzione nei loro confronti adesso si rivolge al loro utilizzo per materiali sempre più performanti a livello tecnico. Il packaging sostenibile non è più l’unica priorità: stanno entrando in commercio soluzioni molto tecniche, completamente biobased, per compositi laminati a fibra lunga che associano ad esempio fibre vegetali di lino o canapa, con resine biofenoliche senza formaldeide. Soluzioni importanti per settori vastissimi, come le costruzioni e l’automotive. Oppure i tecnopolimeri a base di limonene, o le poliammidi da oli vegetali.

Infine, c’è il capitolo legato ai rifiuti urbani “Un potenziale enorme di sfruttamento, una fonte di carbonio da sfruttare ampiamente disponibile. Come? con i fertilizzanti, gli acidi grassi volatili, i PHA ad esempio”.

Le potenzialità, insomma, sono elevate, e l’attesa è alta. Cosa succederà ora? “I risultati non sono di fatto ancora stati divulgati – conclude la prof. Fabbri – ma ci sono già decine di aziende che ci contattano per prendere visione del nostro database. È una grande soddisfazione vedere tanta attenzione rivolta al nostro lavoro, ed è importante che l’Università di Bologna abbia avuto questa opportunità, e l’abbia saputa cogliere”.