I boschi dell’Emilia-Romagna si estendono su oltre 630mila ettari lungo la dorsale appenninica sul totale nazionale pari a 11 milioni ha. Tuttavia, per ora, solo il 48% offre un potenziale produttivo ossia l’opportunità di mettere a valore la bio-economia delle foreste attraverso una miriade di attività agro-silvo-pastorali che spaziano dalla selvicoltura alla castanicoltura, alla tartuficoltura, mentre il resto è costituito prevalentemente da boschi abbandonati che quindi necessitano di interventi forestali oppure posti su crinali molto erti. La vegetazione legnosa rappresenta il 46% della superficie provinciale di Forlì-Cesena; il 44% di quella di Parma e il 36% di quella di Piacenza. Seguono Reggio Emilia con una percentuale pari al 29%; Bologna e Modena rispettivamente con il 28 e il 26 per cento.
Al forum “Coltiviamo l’Appennino centrale: risorse e criticità”, organizzato oggi a Perugia da Confagricoltura, si è sviluppato un ampio confronto tra agricoltori, associazioni di categoria e istituzioni sui temi centrali: sviluppare un modello economico/produttivo del bosco; promuovere la superficie boschiva come coltura agraria a tutti gli effetti e incentivare una nuova gestione faunistico-venatoria per gli ungulati e i predatori. L’evento ha visto la partecipazione di cinque regioni dell’Appennino centrale – Emilia-Romagna, Umbria, Toscana, Marche e Lazio -, rappresentate dai rispettivi assessori regionali all’Agricoltura, così come dai presidenti regionali di Confagricoltura e gli esperti Raoul Romano, del Centro ricerche politiche e bioeconomia CREA e Marco Apollonio dell’Università di Sassari. Insieme a loro, il Capo Dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e Turismo Giuseppe Blasi e il Presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti.
Incentivare un utilizzo energetico della risorsa boschiva, che oggi, grazie anche alle moderne tecnologie, è in grado di fornire rendimenti energetici superiori al 90% e minime emissioni, è quanto chiedono gli agricoltori di Confagricoltura alle istituzioni. Altro tema particolarmente sentito è quello della gestione della fauna selvatica e dei danni che questa provoca sempre più spesso e sempre più ingenti all’agricoltura. E’ necessario riconoscere che la legge 157/92 non è più attuale e, per questo, non consente di intervenire efficacemente, impostata com’è su una conservazione della fauna selvatica spesso non più adatta allo sviluppo del territorio. Sui danni da fauna selvatica, Confagricoltura si è spesso e con determinazione battuta per il risarcimento agli agricoltori da parte dello Stato, sia dei danni diretti determinati dalla perdita di produzione, sia dei danni indiretti, per la perdita di penetrazione nel mercato.
«L’agricoltura è componente essenziale per i territori dell’Appennino – sostiene Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura – Per questo occorre fare una riflessione profonda sulla sostenibilità economica dell’agricoltura in queste aree, senza la quale le montagne si spopolano e si perde quel vantaggio in termini multifunzionale che garantiscono gli operatori del settore, oltre naturalmente al contributo in termini di crescita e occupazione. I territori appenninici del nostro paese, caratterizzati spesso da una debolezza strutturale ed infrastrutturale che ne comporta marginalità ed isolamento economico-sociale, possono invece assumere un ruolo strategico nelle politiche di coesione territoriale che mettono al centro degli obiettivi le cosiddette “aree interne”. È necessario quindi definire un piano strategico di gestione a livello nazionale di questa “infrastruttura verde” che è la dorsale appenninica, orientata alla permanenza e alla valorizzazione di tutte quelle attività di gestione e manutenzione del territorio (agricoltura sostenibile e tradizionale, pascolo, attività zootecniche, selvicoltura e attività connesse e complementari alle pratiche agricole). E sono necessarie strategie di governance tarate e calate, poi, nelle realtà locali e concertate tra i diversi attori dei singoli territori, al fine di orientare efficacemente le politiche di programmazione comunitaria, nello specifico i piani di sviluppo rurale».
Così la presidente di Confagricoltura Emilia Romagna, Eugenia Bergamaschi: «Il patrimonio boschivo è una risorsa economico produttiva da potenziare e non ha solo una valenza ambientale. Servono progetti mirati e sinergie atte a rilanciare aree sensibili al dissesto idrogeologico, spesso a rischio abbandono, ma anche a dare valore alla selvicoltura e alle innumerevoli economie del bosco: la filiera foresta-legno e l’utilizzo delle biomasse legnose per la produzione di energia pulita; la valorizzazione di frutti e sottoprodotti forestali nonché l’ecoturismo. Il bosco -ha concluso- è un polmone insostituibile che può altresì creare reddito e occupazione nel pieno rispetto della natura».
La tutela, la conservazione e il rilancio della montagna sono al centro delle politiche della Regione Emilia-Romagna. «In tema di politiche forestali – osserva l’Assessore regionale all’Agricoltura Simona Caselli – sono tre le leve principali messe in campo dalla Regione di recente. La prima riguarda gli interventi – per oltre 15 milioni di euro dal Psr – a sostegno del patrimonio boschivo, una ricchezza che ad oggi interessa oltre 700 aziende agricole con poco meno di 2mila addetti. Un’altra leva deriva dalla castanicoltura. In questo quadro stiamo lavorando, con il coinvolgimento di funzionari pubblici, docenti universitari, ricercatori e produttori agricoli, all’impostazione di un piano regionale a sostegno di un comparto produttivo che può ancora dare molte soddisfazioni alle aziendeagricole delle aree interne, dopo anni estremamente difficili a causa della vespa cinese. Infine, il tema della tutela. Siamo stati i primi in Italia a dotarci di un Piano faunistico regionale, valido per tutto il territorio dell’Emilia-Romagna, che ha avuto anche il parere positivo di Ispra. Siamo intervenuti con una ‘stretta’ sulla gestione del cinghiale, in particolare con un abbassamento della soglia di danno superata la quale scatterà l’obbligo di intervento con i piani di abbattimento contro l’eccessiva proliferazione della specie».
«Una delle difficoltà maggiori nel far partire politiche concrete per affrontare la difficile situazione di certe aree come quelle dell’Appennino centrale – conclude il Capo Dipartimento MIPAAFT Giuseppe Blasi- è la scarsità di risorse. Per il futuro, tuttavia, c’è sicuramente una maggiore collaborazione tra Stato e Regioni su questi temi, che è fondamentale anche in vista della nuova programmazione dei fondi comunitari, a cui attingere per avere le risorse necessarie. I prossimi due anni saranno decisivi e dobbiamo lavorare, dunque, insieme per poter trovare soluzioni concrete».