Alle prime ore dell’alba, come noto, si è svolta una operazione antimafia della Squadra Mobile della Questura di Bologna, con la collaborazione delle Squadre Mobili delle principali provincie dell’Emilia-Romagna tra cui la Squadra Mobile di Reggio Emilia e della Squadra Mobile di Bergamo ed il coordinamento del Servizio Centrale Operativo, contro un’associazione criminale di tipo mafioso nigeriana, da anni insediata nella regione Emilia-Romagna.

Più di 200 uomini e donne della Polizia di Stato sono stati impegnati nell’esecuzione di 21 fermi di indiziato di delitto ed una serie di perquisizioni disposti dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Bologna nei confronti degli appartenenti all’organizzazione mafiosa nigeriana M.A.P.H.I.T.E., operante in tutta l’Emilia-Romagna. I provvedimenti restrittivi e le perquisizioni sono stati, infatti, eseguiti nelle città di Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Forlì, Cesena, Ravenna e Bergamo.
L’attività d’indagine condotta dalla Squadra Mobile di Bologna, avviata nel 2017, grazie anche alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, ha permesso di annientare gran parte di quello che, all’interno della comunità nigeriana, viene denominato cult “M.A.P.H.I.T.E.”.

Da diversi anni, è noto, le varie tipologie di mafia italiane sono state implementate da altre straniere, tra le quali quella di matrice nigeriana che, nonostante la comunanza degli obiettivi perseguiti, è suddivisa in fazioni o cult, ognuno indipendentemente strutturato e diversamente denominato, in forte rivalità con gli altri.
Tra essi spicca quello dei M.A.P.H.I.T.E., acronimo di Maximum Academic Performance Highly Intellectuals Train Executioner, oggetto della presente indagine, di cui è stato possibile ricostruire la struttura, gli obiettivi, le regole di affiliazione e le modalità di attuazione criminale.
Consolidatasi negli anni ’90 in Nigeria come confraternita o «cult», l’origine embrionale del gruppo risale, già dagli anni ‘80, all’ambiente universitario dello Stato del Benin, così come gli analoghi, ma contrapposti, gruppi diversamente denominati, come ad esempio gli «EIYE», i «BLACK AXE», i «VIKINGS».
Gli scontri, anche fisici e molto violenti, con le contrapposte confraternite per la supremazia territoriale ne determinarono la progressiva ed inesorabile trasformazione in vere e proprie bande criminali.
Gli episodi di efferata violenza di cui si rendevano responsabili determinarono le autorità nigeriane a sancirne l’illegittimità («Secret cult and Secret Society Prohibition Bill» 2001).
La confraternita M.A.P.H.I.T.E. si radicò nella società nigeriana, richiamando a sé numerosi adepti e strutturandosi, seppur inizialmente in modo rozzo e dozzinale, similarmente al modello della mafia italiana, della quale ne volle ricalcare per sommi capi lo scheletro strutturale verticistico. Il risultato nel tempo fu il consolidamento di una struttura solida e ben radicata in Nigeria, mimetizzata in ambito internazionale sotto il nome di Green Circuit Association, e diffusa oramai in moltissimi Stati in tutto il mondo.
Nel 2012 la “G.C.A. CHARITY ITALIA” veniva registrata nella città di Bologna. I soci fondatori sono tra gli attuali indagati.

L’indagine sviluppata dagli investigatori della Squadra mobile di Bologna e coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia, ha consentito di ricostruire l’intera struttura gerarchica di comando, al cui vertice si trova la figura del “DON” (Capo), che esercita il proprio potere impartendo ordini e direttive nei confronti dei vari ruoli su cui si basa il funzionamento dell’organizzazione ed ai quali è stato possibile assegnare un volto ed un nome: Deputy DON (Vice Capo), Fire (addetto alla diffusione di ordini e notizie tra gli affiliati), Main Chief (addetto alla difesa), Checker (tesoriere).
Ad eseguire materialmente gli ordini e le direttive impartite è deputato un comitato esecutivo, a competenza regionale, denominato C.I.C. (Coordinator in Council), capeggiato da un Coordinatore, che ha il compito di gestire una serie di altre figure con competenza operativa provinciale, le quali materialmente gestiscono gli affiliati di una determinata città.
Il funzionamento dell’organizzazione mafiosa è regolato da rigide regole di comportamento codificate in un testo ritenuto sacro dagli affiliati detto “Green Bible” e detenuto dal capo. L’ingresso di nuovi membri secondo precisi rituali, violente punizioni corporali e mortali in caso di tradimento, mutua assistenza tra i membri dell’associazione in caso di difficoltà con le forze dell’ordine, segretezza dell’associazione, esplicita dichiarazione delle finalità criminali perseguite. Il tutto scritto nero su bianco ed ossequiato in maniera sacrale, mescolando sacro e profano, così da rendere ancora più forte il vincolo psicologico tra i singoli adepti.
La forza di intimidazione promana direttamente dal vincolo associativo, in quanto la comunità nigeriana si rivelava perfettamente edotta delle regole che ispiravano l’operato del Cult e che impone il costante ricorso alla sopraffazione violenta quale privilegiato ed unico metodo di risoluzione dei contrasti eventualmente insorti al proprio interno e all’esterno, obbligando gli affiliati a spalleggiarsi a vicenda in caso di confronto con soggetti terzi.
La pericolosità del vincolo associativo è rafforzata dalla peculiarità del cult di mantenere stretti contatti operativi con la madrepatria, che incrementano il senso di soggezione percepito dai concittadini nigeriani, esposti alle ritorsioni dell’associazione non solo in territorio italiano, ma anche nel paese di provenienza.

Dediti principalmente all’attività di spaccio di sostanze stupefacenti nelle piazze delle città di Bologna, Modena e Parma, ma anche all’utilizzo di strumenti di pagamento elettronico contraffatti per l’acquisto di merce on-line, spesso i membri dell’associazione sono stati impegnati in violentissimi scontri con fazioni avverse per la contesa del predominio territoriale, vere e proprie guerriglie urbane, che proseguivano per giorni con contro reazioni, annunciate all’interno del gruppo con il passaparola, che serviva nello stesso tempo a mettere in allerta e come “chiamata alle armi” per gli altri membri del cult.