È la più antica testimonianza genetica della presenza umana nel sud della Spagna: un individuo vissuto 23.000 anni fa in un’area vicino a Granada, in quello che, al culmine dell’ultima era glaciale, era probabilmente il luogo più caldo d’Europa. La scoperta – realizzata da un gruppo internazionale di ricerca e pubblicata su Nature Ecology & Evolution – ci permette di aggiungere un nuovo importante tassello al grande puzzle della storia genetica umana del nostro continente. Unica autrice italiana dello studio è Sahra Talamo, professoressa al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” dell’Università di Bologna e direttrice del BRAVHO 14C Lab (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution).

Il contesto della penisola iberica ha ruolo importante nella ricostruzione della storia del popolamento umano. Essendo un vicolo cieco geografico nel sud-ovest dell’Europa, è infatti considerata da un lato come un luogo di rifugio durante l’ultima era glaciale e dall’altro come un possibile punto di partenza per la ricolonizzazione dell’Europa dopo il picco di espansione dei ghiacci. In passato sono stati infatti trovati i profili genomici di cacciatori-raccoglitori della penisola iberica risalenti a un periodo compreso tra 13.000 e 8.000 anni fa: una scoperta da cui sono emerse le prove della sopravvivenza e della continuazione di un lignaggio paleolitico molto più antico, che è stato invece sostituito in altre parti d’Europa.

Per approfondire questi aspetti, gli studiosi hanno quindi analizzato il DNA umano antico di reperti trovati in diversi siti archeologici dell’Andalusia, nella Spagna meridionale. Tra questi è emerso anche il genoma più antico mai rinvenuto nella regione, proveniente dalla Cueva del Malalmuerzo, vicino a Granada. Inoltre, sono stati studiati i genomi dei primi agricoltori provenienti da altri siti noti, come la Cueva de Ardales, vicino a Malaga, risalenti ad un periodo compreso tra 7.000 e 5.000 anni fa.

Si tratta di risultati particolarmente rilevanti anche per lo stato dei reperti analizzati. Dopo la morte di un organismo, il suo DNA si conserva infatti solo per un certo periodo di tempo e in condizioni climatiche favorevoli. Per questo, l’estrazione del DNA da resti antichi provenienti da climi caldi e secchi è una grande sfida per i ricercatori.

“Nonostante le condizioni climatiche non certo ideali, siamo riusciti ad estrarre collagene dai reperti individuati e a realizzare datazioni accurate grazie al radiocarbonio”, spiega la professoressa Sahra Talamo.

 

NEL POSTO GIUSTO AL MOMENTO GIUSTO

L’ascendenza genetica degli individui dell’Europa centrale e meridionale vissuti prima dell’Ultimo Massimo Glaciale (da 24.000 a 18.000 anni prima di oggi) è diversa da quella degli individui che hanno ricolonizzato l’Europa. Ma fino ad oggi mancavano sufficienti dati genomici per ricostruire la situazione in Europa occidentale. L’individuo esaminato, risalente a 23.000 anni fa, i cui resti sono stati trovati nella Cueva del Malalmuerzo, vicino a Granada, ci permette ora di colmare questa lacuna, ricostruendo un possibile percorso migratorio: lo studio descrive infatti un legame genetico diretto tra un individuo di 35.000 anni fa proveniente dal Belgio e il nuovo genoma di Malalmuerzo.

“Grazie all’alta qualità dei nostri dati, siamo stati in grado di individuare le tracce di uno dei primi lignaggi genetici che hanno colonizzato l’Eurasia 45.000 anni fa”, spiega la prima autrice Vanessa Villalba-Mouco dell’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva. “È importante notare che abbiamo trovato somiglianze con un individuo di 35.000 anni fa proveniente dal Belgio, la cui ascendenza può ora essere ulteriormente ricondotta all’individuo di 23.000 anni fa proveniente dall’Iberia meridionale”.

“Questo importante risultato è stato possibile anche grazie alle accurate misurazioni del radiocarbonio, che hanno permesso di ottenere datazioni con un margine di errore di soli 50 anni”, aggiunge Sahra Talamo. “Poter contare su questa tecnologia è fondamentale per studiare la relazione tra le mutazioni del clima e i movimenti delle popolazioni umane più antiche”.

I risultati ottenuti mostrano quindi che l’individuo proveniente dalla Cueva del Malalmuerzo è collegato geneticamente non solo a popolazioni europee molto precedenti, ma anche ai cacciatori-raccoglitori dell’Europa meridionale e occidentale che vissero molto tempo dopo l’ultima era glaciale. E confermano quindi l’importante ruolo della penisola iberica come rifugio per le popolazioni umane durante la fase principale di espansione dei ghiacci nel nostro continente. Da lì, una volta che le calotte glaciali si furono ritirate, gli esseri umani migrarono poi verso nord e verso est.

“Con Malalmuerzo siamo riusciti a trovare il posto giusto e il periodo giusto per far risalire un gruppo umano del Paleolitico a uno dei rifugi proposti per l’era glaciale”, aggiunge Wolfgang Haak dell’Istituto Max-Planck per l’antropologia evolutiva, coordinatore dello studio. “È molto significativo essere riusciti a trovare un’eredità genetica così duratura nella penisola iberica, soprattutto perché questa ascendenza pre-glaciale era invece scomparsa da tempo in altre parti d’Europa”.

 

ALTRI PEZZI DEL PUZZLE

Nonostante i collegamenti genetici tra popolazioni che hanno vissuto in diverse parti d’Europa attraverso i millenni, i risultati ottenuti non mostrano invece alcun legame tra gli antichi abitanti della penisola iberica meridionale e il Nordafrica. Questo nonostante alcuni paralleli individuati nella documentazione archeologica e la distanza di soli 13 chilometri attraverso il Mar Mediterraneo, all’altezza dello Stretto di Gibilterra.

“A Malalmuerzo non abbiamo trovato alcuna prova di un contributo genetico da parte dei lignaggi nordafricani e, viceversa, non c’è alcuna prova di un contributo genetico dalla Spagna meridionale nei genomi degli individui di 14.000 anni fa trovati in Marocco, nella grotta di Taforalt”, conferma Gerd-Christian Weniger dell’Università di Colonia. “Perché lo Stretto di Gibilterra, alla fine dell’ultima era glaciale, fosse una barriera così solida per la migrazione umana resta una delle questioni irrisolte della ricerca archeologica nel Mediterraneo occidentale”.

Insieme all’individuo di Malalmuerzo, gli studiosi hanno infine esaminato anche una serie di individui più giovani, risalenti al Neolitico, tra 7.000 e 5.000 anni fa, nel periodo in cui i primi agricoltori arrivarono in Europa dal Vicino Oriente. L’ascendenza genetica caratteristica dei gruppi neolitici anatolici è effettivamente rilevabile negli individui dell’Andalusia, il che suggerisce che questi primi agricoltori si sono diffusi su grandi distanze geografiche.

“Le popolazioni neolitiche dell’Iberia meridionale, tuttavia, mostrano una maggiore proporzione di lignaggi di cacciatori-raccoglitori”, precisa Jose Ramos-Muñoz dell’Universidad de Cádiz, coautore dello studio. “Pertanto, l’interazione tra gli ultimi cacciatori e i primi agricoltori potrebbe essere stata molto più stretta di quanto avvenuto in altre regioni d’Europa”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution con il titolo “A 23,000-year-old southern-Iberian individual links human groups that lived in Western Europe before and after the Last Glacial Maximum”. Per l’Università di Bologna ha partecipato Sahra Talamo, professoressa al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” e direttrice del BRAVHO 14C Lab (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution).